Sono un assiduo frequentatore di presentazioni di libri. Quando il lavoro me lo consente e la stanchezza non inizia a pesare sulle stanche membra già alle 15, come inevitabile prologo di un sonno precoce, amo inaugurare una serata in libreria, soppesando l'idea di un acquisto anche grazie alle parole dell'autore stesso.
Penso di aver collezionato abbastanza prime uscite pubbliche di poeti emergenti (come per altro di romanzieri) per convincermi che l'idea di un progetto artistico di ampio respiro non è più tra le priorità di un autore, dando per scontato che per gli editori non è mai stato. Soprattutto nell'ambito della lirica, grazie all'affermazione della pratica di accollamento all'autore stesso di tutti i rischi economici derivanti dalla produzione di un libro di poesia senza essere un Leopardi o un Carducci, le suddette presentazioni ripetono uno scenario impressionante: l'autore mogio o battagliero (a seconda del temperamento) che cerca di trovare una ragione alla sua poesia che non sia "poesia è una scrittura che non consuma tutto il rigo".
Così, spasmi d'amore giovanile, o il vecchio libro scritto e mai stampato, o la raccolta di deiezioni della depressione post-parto di casalinghe più disperate di quelle dell'omonima serie, finiscono per una sera sugli impastatoi delle librerie per irrancidirsi in una sola notte di volgare eloquenza.
Però, come nelle migliori tradizioni, c'è un però. L'altro ieri, in un altro attacco di letteraturite acuta, sono andato a godermi un reading di poesia in quel di Capua, cui prendeva parte il già noto Marco Palasciano, che da solo mi avrebbe garantito che non avrei sprecato la serata.
Come spesso accade, partendo da basse aspettative, ci si può ritrovare a ricevere molto più di quanto si sarebbe osato sperare, giacché oltre la splendida esibizione di antiepica palasciana, mi sono ritrovato a sgretolarmi il cuore per la poesia di Nadia Marino e di Andy Violet.
Se la Marino non mi era un nome del tutto nuovo, in quanto affermata giornalista, il signor Violet, omone di nero vestito dalla voce un pò flebile e tremolante, è stata una folgorazione. Sette poesie recitate tessendo attorno allo spettatore il filo spinato di una faccia oscura e verminosa dell'amore, uno sperpero di corpi che mi ha fatto quasi paura.
Questo tipo dalla faccia bonaria di prete di campagna mi tiene per una decina di minuti seduto su una sedia parlandomi di necrofilia, di stupro, di transessuali innamorate, e io annuisco come se davvero fossi innamorato di un cadavere o come se avessi cambiato sesso pochi minuti prima.
Compro subito il suo libro, 80 pagine in cui ringrazi il cielo che tra una poesia e l'altra ci sia una pagina bianca per darti respiro, ma poi la maledici perché ti tiene troppo lontano dalla poesia successiva. C'è di sicuro Pasolini dietro questa bellezza della perversione, non come imitazione, ma come una lezione recepita e ben metabolizzata: il risultato è spesso un camion in piena faccia, da cui miracolosamente ti alzi ancora vivo, gustando tutta l'agonia del dolore che desideravi.
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