SESTINA
«A QUALUNQUE CONCENTO
ALBERGHI IN VERSO»
«A QUALUNQUE CONCENTO
ALBERGHI IN VERSO»
A qualunque concento alberghi in verso, se non quelli che avranno in odio l'ode, tempo di sofferenza è tutto il metro. Ma poi che il cielo accende cuori e stelle, chi torna al desco, chi s'annida in letto, col cervello in riposo fino all'alba. Ma noi, da che si accende la grigia alba, sfiniamo mente e cuore intorno a un verso, temendo offese in chiunque ci avrà letto; peniamo anni ed età a compiere l'ode che ci sollevi infine oltre le stelle ma solo abbiamo in cambio ontoso metro*. Ti rispondo perciò con questo metro, io che tornato a casa avanti l'alba, da notti d'agra birra e fioche stelle, perdo qui tempo e annodo verso a verso, ruminando per burla una greve ode ché poco sogno o sonno ho avuto in letto! Non so che proverai, se m'avrai letto incatenato in questo ostico metro, che vincoli apre in sé più d'ogni altra ode, da penarci più notti anche oltre l'alba - e spesso poi non vi si trova verso che chiuda il senso, o in terra o tra le stelle. Spero per fitta tu non veda stelle, da ricovrarti in fretta in egro letto, o che tu non risponda in aspro verso, a questo mio ch'è poi ludico metro, rimeditando offeso notte ed alba le arguzie malaccorte di quest'ode. Temo davvero che ti noccia, un'ode, non tramata di cuori, non di stelle, e intrecciata in mal punto alla tard'alba. Né io te ne vorrò, se non m'hai letto. Possa tu misurare in miglior metro, note ed enti che senso offrano al verso. Poiché non vedo verso, qui, se altri ode, di piegare a buon metro o stalle o stelle; ma in letto di Procuste attendo ogni alba. |
SESTINA
«PERCHÉ LA VERITÀ NON
RESTI IN OMBRA»
«PERCHÉ LA VERITÀ NON
RESTI IN OMBRA»
Perché la verità non resti in ombra, offuscata nei termini del gioco, che nell'incontro oppone all'eco l'eco, tesso mie voci al muto orlo del buio, a mascherarne il vuoto con la rosa** fermata nella nuda aura del nome. Non è fatuo ricamo o vacuo nome, questo che sui contorni irti dell'ombra ora si sgrana ai petali di rosa strappati dagli amanti al vano gioco, quando l'attesa dubita nel buio, che delle angosce rende eterna l'eco. Sì tu potresti ravvisarne l'eco, in quell'impulso a stringere col nome la forma, prima che il vorace buio ne rapisca l'essenza in gorghi d'ombra, e ne faccia trastullo al nero gioco, che sullo stelo fa vizza ogni rosa. Ché se la rosa torna in questa rosa, come detta ragione a segno d'eco, così nel senso avrai traccia del gioco per cui risponde nella cosa il nome, riscattando la preda al manto d'ombra che nell'amplesso la soggioga al buio. Per quanto resti a noi fraterno il buio, più che fra lini miele ebbro di rosa, in questo esistere affatato d'ombra, breve più che in abisso orbita d'eco, così parte d'un noi serba quel nome a cui la sorte ci inchiodò per gioco. Così per lieve che ti paia il gioco, filo sommesso a tendersi oltre il buio, pure il mio senso resta in questo nome, ripetuto nei grani della rosa smangiati sul ricorrere dell'eco alla sponda che al suono oppone l'ombra. Così resto nell'ombra del mio gioco, mentre nei campi è l'eco di quel buio che disfà nella rosa ogni altro nome. |
* Cfr. Inferno VII 33.
** Cfr. Umberto Saba, Preludio e fughe, Secondo congedo: «Quante rose a nascondere un abisso!».
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