21 maggio 2010

Sonetto genetliaco al Palasciano

Pubblichiamo con gioia il sonetto di Andy Violet che il nobilissimo poeta ha composto per augurare oggi (21 maggio 2010) buon compleanno (21+21 anni) a Marco Palasciano.





 



È strano il meccanismo del ricordo:
svolge come un antico fregio greco
il rimbalzo sbiadito, quasi sordo,
di una sommessa e interminabile eco.

Permane scomparendo, ïl ricordo,
come la luce negli occhi di un cieco
o come l'onda gelata di un fiordo
e chiede sforzo che è quasi uno spreco.

Ma se dell'uva resta ombra nel vino
e in terra i fossili dei dinosauri
spero non sembri troppo peregrino

scorgere in te äncora quel bambino
preso da anatomïe di centauri,
genio precoce, conscio del destino.



Pagina da un'enciclopedia mitologica di Palasciano 13enne.

17 maggio 2010

Sú e giú su un vulcano addormentato

Riportiamo in versione originale il racconto palascianesco edito nell'antologia Se mi lasci, non male. Penne d'amor perdute, Kairos, 2010, nel quale volume il testo si trova guastato da editing selvaggio (d eufoniche soppresse per non esser stata intesa la struttura metrica, corsivi aggiunti, ecc., culminando nella sparizione completa delle note a piè di pagina).

Ricordiamo a tutto il mondo editoriale che sarebbe buona norma, dopo averle "corrette" e prima d'andare in istampa, inviare le bozze in visione a ogni autore, soprattutto se latore di un'intelligenza linguistica e tipografica del calibro di quella del nostro Presidente, onde evitare dolorose sorprese all'uno e vergognose scenate agli altri.

I quali tuttavia, nello specifico caso, son tutti perdonati, non avendo peccato per malizia, anzi essi avendo, per quanto ne sappiamo, anime sante; tant'è che, ciò sapendo, la
scenata di Palasciano innanzi al pubblico della presentazione non è stata eccessivamente violenta, pur avendo egli scoperto solo in tale sede i guasti di cui sopra; ma in passato, come noi sventurati suoi servi sappiamo, ha tagliato molte teste (virtualmente) per molto meno.




Marco Palasciano
Sú e giú su un vulcano addormentato

Una donna. Una donna perduta. Una donna perduta nel profondo. Una donna perduta nel profondo dell’abisso. Una donna perduta nel profondo dell’abisso dell’anima. Una donna perduta nel profondo dell’abisso dell’anima dell’uomo cammina tra le sparse macerie incarbonite del suo amore e fuori di metafora cammina per la strada, strada vuota, cuore vuoto, svuotato, scucchiaiato, gambe molli, meccaniche, nei jeans, occhi smarriti all’etra del crepuscolo, occhiaie macerate, gote diacce, la faccia bianca come per farina, il crine ispido e corto, il corpo magro, smagrito, di ragazza cancerosa, camicia di satin color di rosa, scimmiottino di gomma al portachiavi, un pipí alle tue spalle che meccanico risuona all’infinito, tu di spalle alla vetta del Vesuvio, pipí pipí pipí di vettura lontana, parcheggiata, vuota d’umani e a porte sigillate, che qualcuno avrà urtata ed allarmata, urtata forse in rabbia, con un piede, o i pugni in sincronia, rabbia quindi chetata, chetata per stanchezza e non per altro: ché ognuno giunge a un limite e si spegne, solvenza d’una vita che è scoppiata, troppo rigonfia d’hybris assortite, ora pellecchia a spenzolare oscena a mo’ d’una reliquia genitale appesa al nulla come un nido vuoto di vespe ad una trave, atro, svuotato, tutte le vespe morte, affumicate, cadute al suolo come umani sogni. E sogni piú non ha, tutti perduti, questa donna perduta che cammina, che cammina sul fondo dell’abisso, che cammina per strada sguardo fisso, all’alto, al cielo che incupisce e attrista facendosi apripista del suicidio.
Ma una vecchia benevola s’accosta, tracagnotta e un po’ ciotta, panni marrò piú agresti e meno lievi di quanto chieda la stagione e il fashion, testa fazzolettata, qualche ciuffo bianchissimo, papale, che il venticello smuove come erbetta, pelle di creta ove ogni ruga è crepa, occhi che sono aperti e sembran chiusi, un dente in bocca; e, tutta impietosita, tenta coi diti inariditi il verno delle gote dell’orfana in satin che lí s’arresta. E:
– Signurinè’, nenné’, ched è? ca ttiene?
– Tengo il ricordo di non sai che pène.
Pène d’amòr perdute? Scecchešpirre?
– Peggio: l’ultima sono delle Mirre.
– Col padre tuo…! Che orror, che gelo estremo. Uè, e che t’ha fatto pàteto, ’stu scemo?
– Forse scambi Ciniro con Tarquinio. Non fu pa’ che mi trasse all’abominio, ma la mia voluttà di figlia abnorme; onde su questa piaggia allineo l’orme, traducendomi lungi dalla vita, mentre cala la tenebra infinita; ché la mia colpa atroce, oltre l’incesto, fu ahimè la sua precoce…
– Venne presto?
– Non venne: andò. Morí, per la vergogna… – qui sostò, poi concluse in un sospiro: – appena si svegliò.
– Ma qui si sogna! – disse l’altra sentendo il capogiro; – no, il pa’ sognava; e tu gli fosti addosso?
– Sí, buona vecchia; come il cane all’osso.
Quella si fece il segno della croce, quindi riprese con piú ctonia voce: – Nunn he ’a murí, tu he ’a fà na penitenza; si t’accide, Dio aggrava la sentenza. M’odi, ché ho poppe e non cervella mence: va’ in convento, come già disse il prence che tutta Danimarca pigliò a gabbo; va’ in convento; e, ciò detto, ov’è il tuo babbo?
– L’aggio lassato ncopp’ a lu triclinio. Là compitava l’opera di Plinio; e là si addormentò, dito sul Nulla*
Nulla dies sine linea, egra fanciulla?
– Sí.** Quindi gli scopersi altro che un dito, e feci come fosse mio marito; finché non si destò e, con mirraviglia, vide il suo all nel nothing di sua figlia. Quivi morí; e, come tu mi vedi, vid’io sbiancato lui da tigna a piedi, nella vestaglia a righe gialle e nere; e ricadde volgendomi il sedere, che un lungo condiloma su una crespa assimilava al tergo d’una vespa.
Tacquero vecchia e giovane, ormai stanche, stanche d’endecasillabi rimati, echi dissolti al pari dell’estremo lucore all’orizzonte, venuta ormai la notte, il pipí spento, scariche forse ormai le batterie di tutte le automobili del mondo. E l’ava ritornò al suo focherello, sull’orlo della strada, gettando nel bidone altro sterpame; e già le si accostava un gerontofilo, un’ombra adonescente, hair-style da paggio.
Li occhi lucenti lagrimando volse l’altra, e i suoi passi, fuori della strada: verso l’immacolato immaginario convento che, lontano, nel buio e nella nebbia, aspetterèbbela. Non sapeva che prima d’arrivarvi avrebbe rincontrato il padre suo, mutato in uno zombie dagli alieni, bramoso d’atterrarla con un colpo di testa e una zampata; e, pazzo, a morsi e unghiate, laparotomizzarla; e infilarsi col grifo e il teschio e tutto a divorarle gli organi, estroflesso a mo’ di spiritromba il proprio esofago, dentato, trichiostrato, succhiando quelle amare gommorèsine, per trascinarla poi fino in bocca al Vesuvio come una marionetta da smaltire in olocausto al dio che è tempo esploda. E a voi, gentili alieni che smorzate i rumori e ghiacciate l’universo, capovolti chirotteri di vetro, quell’ex padre dolcissimo e poeta parrà, nell’esplorarla col suo cruento pseudocannocchiale, un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo della carne della donna. Un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo della carne. Un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo. Un uomo ritrovatosi allo zenith. Un uomo ritrovatosi. Un uomo.



* Cioè posizionato sulla parola a mo’ di segnalibro (e di segno divino di via libera alla figa, la figlia avrà pensato, ricordando che all’epoca di Shakespeare per nothing si intendeva in gergo quella; vedasi Tanto strepito per nulla).

** No, a meno che il proverbio fosse in chiosa. Plinio il Vecchio riporta solo questo: «Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo numquam tam occupatum diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret artem, quod ab eo in proverbium venit» (Naturalis historia, XXXV, 84). Altrimenti il sintagma sarà stato, se la confusa giovane l’ha intravisto soltanto, «nulla signa statuæve sine argilla» (153).

10 maggio 2010

È necessario essere difficili

A far pendant col precedente post, Il liguaggio della mediocrità, riportiamo il parere d'un alt[r]o nostro Socio Ornamentale, Franco Cuomo, tolto da un commentario del suo blog, dove a un punto si è trattato di «guardare il volgo asino e beota dall'alto in basso e con non celato disprezzo», che «è l'unica soddisfazione che ci rimane, se pensi poi che il volgo ci schifa [...] in ogni momento e in ogni luogo, mediatico e no [...]. E dunque schifiamoci a vicenda e senza infingimenti». Ci cuommuove soprattutto il passo che segue.


I linguaggi della cultura sono una sfida dell'intelligenza, della curiosità, della tolleranza. Ad essi si accede con umiltà e sacrificio. Non con schiamazzi e facilonerie asine e plebee, di massa, appunto.

Sei tu con la tua vita che sei un magnifico exemplum da imitare. È il caro Andy un exemplum, e tutti quelli come voi. E Derek Jarman era un exemplum, e Pasolini lo era.

Ora: tu puoi forse credere – e so bene che non lo credi – che quello che fai e scrivi, o quello che fa e scrive Andy, o i capolavori di Jarman e Pasolini, potrebbero mai essere banalizzati per essere accessibili al beotismo dominante e tracimante nella e dalla Televisione? o nelle e dalle nostre Università? No, caro Marco!

Bisogna essere astrusi, criptici e difficili. È necessario; non v'è altra strada per sopravvivere al brutto.

E per questo tu mi sei molto caro.

9 maggio 2010

Tra le penne perdute un Palasciano

Questo martedì, 11 maggio 2010, alle ore 18.00, si presenterà in Napoli, presso la libreria Feltrinelli di via S. Tommaso D'Aquino, un'antologia di micronarrazioni erotocomiche, fra i cui autori (raggruppati sotto l'acronimo GULP, Gruppo Umoristi Ludici Postmoderni) è il Maestro Palasciano (sebben non faccia parte d'alcun Gruppo, né sia Postmoderno, né un mero Umorista, e sul Ludico ci sta ripensando): Se mi lasci, non male. Penne d'amor perdute, a cura di Gianni Puca, ed. Kairòs.

Gli autori sono ben 60, di cui uno anonimo, più il duecentesco Ciullo d'Alcamo e una, sospettiamo, apocrifa Monna Rosa de Fresca Frasca. Oltre il nostro Presidente, Marco Palasciano, fra i 60 ricordiamo: Edgardo Bellini, massimo Socio Ornamentale dell'Accademia Palasciania; Marco Catizone, già entrato nella storia della letteratura in quanto autor d'un breve articoletto citante il Palasciano (L'arte poetica fra cosmico e comico, «Roma», 27 ottobre 2009); e tre fra i coautori, col Palasciano, di Napoli per le strade: Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Marco Marsullo.

Il testo palascianesco s'intitola Sù e giù su un vulcano addormentato, e tratta di un orribile incesto. Eccone un frammento:


... rabbia quindi chetata, chetata per stanchezza e non per altro: ché ognuno giunge a un limite e si spegne, solvenza d’una vita che è scoppiata, troppo rigonfia d’hybris assortite, ora pellecchia a spenzolare oscena a mo’ d’una reliquia genitale appesa al nulla come un nido vuoto di vespe ad una trave, atro, svuotato, tutte le vespe morte, affumicate, cadute al suolo come umani sogni. E sogni piú non ha, tutti perduti, questa donna perduta che cammina, che cammina sul fondo dell’abisso, che cammina per strada sguardo fisso, all’alto, al cielo che incupisce e attrista facendosi apripista del suicidio. Ma una vecchia benevola s’accosta...