21 agosto 2009

Hominis brevis saltus, ingens hominum

4.57, ora italiana, del 21 luglio 1969: per la prima volta nella storia umana  (salvo rettifiche da parte di qualche professore di Storia delle civiltà perdute e/o il rinvenimento di qualche monumento atlantidèo, muano o lemuriano sulla faccia nascosta della luna), un esemplare della nostra specie – nella fattispecie il trentottenne dell’Ohio Neil Armstrong – posa piede sul suolo selenita. «That’s one small step for man, one giant leap for mankind» (sic). Ecco compiersi esattamente adesso, 4.57 del 21 luglio 2009, 40 anni da allora! Cogliamo l’occasione – noi essendo l'Accademia Palasciania, euristica o lunatica che sia – per propinarvi un paio di frammenti (ti pareva...) di Marco Palasciano dedicati alla luna, ambedue epiloghi:

Il gran sole carico d’amore è tramontato nell’immensa lacrima che avvolge il piú del mondo e ha nome oceano, lasciandoci prima alla notte e poi alla sorda luna che impudente sorride disfiorando coi medusèi tentacoli il Tifata. Il suo funereo carro seguono farfatopi neroalati, spargendo per lo spazio la tenue sabbia degli incubi, invisibile come un flusso di nanoparticelle.
Salendo abbraccerà in un sola fredda occhiata il lago d’Averno e la Reggia di Caserta, i Lagni contaminati e il carrozzone della Sibilla, i templi di Pæstum e le ville dei camorristi, il grattacielo osceno in via Medina e l’anfiteatro di Capua antica canoro di ruggiti fantasma, una strada di campagna dove un treruote porta a spasso sotto un telo alcuni bidoni di scorie abusive del nordest e la stazione di Napoli centrale con alcuni gentili noglobal del nordest seduti tra i loro zainetti in attesa del treno delle 4.07, la bianca palla aliena della centrale nucleare in letargo sul Garigliano e le ombre di Plinio e suo nipote che siedono presso la riva del mare e guardano con atarassia al Vesuvio che si prepara a curare le piaghe della Campania con il suo fuoco quello sí veramente purificatore, la tomba di Leopardi su cui riposa le ali chiuse come un libro chiuso una farfalla nei cui ommatídii si specchiano le prime nubi che tinteggia l’alba – ecco, è già lunedí e io non so come può concludersi questa storia – e il cantiere acerrano dove incompiuta torre nacque già rugginosa e sogna un suo finale babelico.

Che dire? a questo punto ci sarebbe da fare uno o piú passi indietro, inquadrare una scena secondaria, e renderla primaria; per esempio, i limoni nel giardino – là a Lauro – del castello bruciato, intatti quelli; la terra smossa di fresco, il tenero verde dell’erba che intorno già preme a sanar la ferita; la luna che a notte s’incanta a guardare i mortali, e piange, di dentro, ferita dall’esserne altro; ché rotola, immensa, nei cieli, prigione a sé stessa, divisa tra il buio e la luce, perduto ogni tono intermedio da quando si volle senz’aria, asettica, pura, sorella del niente; girando, in eterno, e guardando tra i rami degli alberi – qui di limoni, piú avanti i nocciòli – la vita che adesso si muove, adesso si ferma, per poco o per sempre, ma intanto s’è mossa; su gambe, con mani, o monconi, tra volti ridenti e piangenti; e aveva, la vita, una meta (magari sbagliata; non conta); se pure non s’è mai raggiunta, almeno si aveva; la luna non ha che il suo muoversi in circolo vano, né mai la vedrete difendere un vaso di noci.
Già troppo di lei s’è parlato; torniamo alla terra, ai feroci suoi doni; la luce dai mille colori che al cieco è negata, l’aria che olezza non di soli fiori e porta il rumore e la parola, l’acqua che passa una volta sola, il fuoco che dimostra la vanità finale dello scrivere, il suolo velato dal tenero verde dell’erba e, sopra, due pastori e un cane che passeggiano sotto il sole.

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