lunedì 17 maggio 2010

Sú e giú su un vulcano addormentato

Riportiamo in versione originale il racconto palascianesco edito nell'antologia Se mi lasci, non male. Penne d'amor perdute, Kairos, 2010, nel quale volume il testo si trova guastato da editing selvaggio (d eufoniche soppresse per non esser stata intesa la struttura metrica, corsivi aggiunti, ecc., culminando nella sparizione completa delle note a piè di pagina).

Ricordiamo a tutto il mondo editoriale che sarebbe buona norma, dopo averle "corrette" e prima d'andare in istampa, inviare le bozze in visione a ogni autore, soprattutto se latore di un'intelligenza linguistica e tipografica del calibro di quella del nostro Presidente, onde evitare dolorose sorprese all'uno e vergognose scenate agli altri.

I quali tuttavia, nello specifico caso, son tutti perdonati, non avendo peccato per malizia, anzi essi avendo, per quanto ne sappiamo, anime sante; tant'è che, ciò sapendo, la
scenata di Palasciano innanzi al pubblico della presentazione non è stata eccessivamente violenta, pur avendo egli scoperto solo in tale sede i guasti di cui sopra; ma in passato, come noi sventurati suoi servi sappiamo, ha tagliato molte teste (virtualmente) per molto meno.




Marco Palasciano
Sú e giú su un vulcano addormentato

Una donna. Una donna perduta. Una donna perduta nel profondo. Una donna perduta nel profondo dell’abisso. Una donna perduta nel profondo dell’abisso dell’anima. Una donna perduta nel profondo dell’abisso dell’anima dell’uomo cammina tra le sparse macerie incarbonite del suo amore e fuori di metafora cammina per la strada, strada vuota, cuore vuoto, svuotato, scucchiaiato, gambe molli, meccaniche, nei jeans, occhi smarriti all’etra del crepuscolo, occhiaie macerate, gote diacce, la faccia bianca come per farina, il crine ispido e corto, il corpo magro, smagrito, di ragazza cancerosa, camicia di satin color di rosa, scimmiottino di gomma al portachiavi, un pipí alle tue spalle che meccanico risuona all’infinito, tu di spalle alla vetta del Vesuvio, pipí pipí pipí di vettura lontana, parcheggiata, vuota d’umani e a porte sigillate, che qualcuno avrà urtata ed allarmata, urtata forse in rabbia, con un piede, o i pugni in sincronia, rabbia quindi chetata, chetata per stanchezza e non per altro: ché ognuno giunge a un limite e si spegne, solvenza d’una vita che è scoppiata, troppo rigonfia d’hybris assortite, ora pellecchia a spenzolare oscena a mo’ d’una reliquia genitale appesa al nulla come un nido vuoto di vespe ad una trave, atro, svuotato, tutte le vespe morte, affumicate, cadute al suolo come umani sogni. E sogni piú non ha, tutti perduti, questa donna perduta che cammina, che cammina sul fondo dell’abisso, che cammina per strada sguardo fisso, all’alto, al cielo che incupisce e attrista facendosi apripista del suicidio.
Ma una vecchia benevola s’accosta, tracagnotta e un po’ ciotta, panni marrò piú agresti e meno lievi di quanto chieda la stagione e il fashion, testa fazzolettata, qualche ciuffo bianchissimo, papale, che il venticello smuove come erbetta, pelle di creta ove ogni ruga è crepa, occhi che sono aperti e sembran chiusi, un dente in bocca; e, tutta impietosita, tenta coi diti inariditi il verno delle gote dell’orfana in satin che lí s’arresta. E:
– Signurinè’, nenné’, ched è? ca ttiene?
– Tengo il ricordo di non sai che pène.
Pène d’amòr perdute? Scecchešpirre?
– Peggio: l’ultima sono delle Mirre.
– Col padre tuo…! Che orror, che gelo estremo. Uè, e che t’ha fatto pàteto, ’stu scemo?
– Forse scambi Ciniro con Tarquinio. Non fu pa’ che mi trasse all’abominio, ma la mia voluttà di figlia abnorme; onde su questa piaggia allineo l’orme, traducendomi lungi dalla vita, mentre cala la tenebra infinita; ché la mia colpa atroce, oltre l’incesto, fu ahimè la sua precoce…
– Venne presto?
– Non venne: andò. Morí, per la vergogna… – qui sostò, poi concluse in un sospiro: – appena si svegliò.
– Ma qui si sogna! – disse l’altra sentendo il capogiro; – no, il pa’ sognava; e tu gli fosti addosso?
– Sí, buona vecchia; come il cane all’osso.
Quella si fece il segno della croce, quindi riprese con piú ctonia voce: – Nunn he ’a murí, tu he ’a fà na penitenza; si t’accide, Dio aggrava la sentenza. M’odi, ché ho poppe e non cervella mence: va’ in convento, come già disse il prence che tutta Danimarca pigliò a gabbo; va’ in convento; e, ciò detto, ov’è il tuo babbo?
– L’aggio lassato ncopp’ a lu triclinio. Là compitava l’opera di Plinio; e là si addormentò, dito sul Nulla*
Nulla dies sine linea, egra fanciulla?
– Sí.** Quindi gli scopersi altro che un dito, e feci come fosse mio marito; finché non si destò e, con mirraviglia, vide il suo all nel nothing di sua figlia. Quivi morí; e, come tu mi vedi, vid’io sbiancato lui da tigna a piedi, nella vestaglia a righe gialle e nere; e ricadde volgendomi il sedere, che un lungo condiloma su una crespa assimilava al tergo d’una vespa.
Tacquero vecchia e giovane, ormai stanche, stanche d’endecasillabi rimati, echi dissolti al pari dell’estremo lucore all’orizzonte, venuta ormai la notte, il pipí spento, scariche forse ormai le batterie di tutte le automobili del mondo. E l’ava ritornò al suo focherello, sull’orlo della strada, gettando nel bidone altro sterpame; e già le si accostava un gerontofilo, un’ombra adonescente, hair-style da paggio.
Li occhi lucenti lagrimando volse l’altra, e i suoi passi, fuori della strada: verso l’immacolato immaginario convento che, lontano, nel buio e nella nebbia, aspetterèbbela. Non sapeva che prima d’arrivarvi avrebbe rincontrato il padre suo, mutato in uno zombie dagli alieni, bramoso d’atterrarla con un colpo di testa e una zampata; e, pazzo, a morsi e unghiate, laparotomizzarla; e infilarsi col grifo e il teschio e tutto a divorarle gli organi, estroflesso a mo’ di spiritromba il proprio esofago, dentato, trichiostrato, succhiando quelle amare gommorèsine, per trascinarla poi fino in bocca al Vesuvio come una marionetta da smaltire in olocausto al dio che è tempo esploda. E a voi, gentili alieni che smorzate i rumori e ghiacciate l’universo, capovolti chirotteri di vetro, quell’ex padre dolcissimo e poeta parrà, nell’esplorarla col suo cruento pseudocannocchiale, un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo della carne della donna. Un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo della carne. Un uomo ritrovatosi allo zenith del cielo. Un uomo ritrovatosi allo zenith. Un uomo ritrovatosi. Un uomo.



* Cioè posizionato sulla parola a mo’ di segnalibro (e di segno divino di via libera alla figa, la figlia avrà pensato, ricordando che all’epoca di Shakespeare per nothing si intendeva in gergo quella; vedasi Tanto strepito per nulla).

** No, a meno che il proverbio fosse in chiosa. Plinio il Vecchio riporta solo questo: «Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo numquam tam occupatum diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret artem, quod ab eo in proverbium venit» (Naturalis historia, XXXV, 84). Altrimenti il sintagma sarà stato, se la confusa giovane l’ha intravisto soltanto, «nulla signa statuæve sine argilla» (153).

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un vulcano di parole nuove, che esplodono nel ritmo incalzante del racconto e del dialogo con sapienti rimandi a una dotta tradizione letteraria ...(Vanna C.)

Marco Palasciano ha detto...

Grazie, mia gentilissima. :)