COME METTERE CAPUA
IN MOTO BRUNIANO*
IN MOTO BRUNIANO*
Trentatré anni prima che Galilei – vecchio e un po’ tremante davanti ai cardinali dell’Inquisizione – scegliesse l’abiura piuttosto che la morte, Giordano Bruno scelse la morte piuttosto che l’abiura. Quella volta davanti all’inquisito furono gli inquisitori a tremare un po’, per come dovette guardarli mentre dichiarava la sua scelta, lui che, pur alto un metro e sessanta scarso, in senso morale era un gigante. Se in un primo tempo aveva deciso di abiurare, poi – quando un cardinale soprannominato il Martello degli Eretici (di lí a due anni arcivescovo di Capua) gli presentò, pronta da obliterare, la lista dei punti chiave della sua filosofia di cui fare ammenda – Bruno ci ripensò. Tanto fortemente amava la vita, quanto fortemente volle rinunciarle pur di non tradire sé stesso. Non avrebbe mai piú rivisto la natia Campania, che qualche anno prima, dalla Francia, aveva ricordato con struggimento e ricreato a tutto colore in un testo teatrale di scandalosa allegria, il Candelaio. Il Nolano sarebbe morto nella cupa Roma di Clemente VIII, circondato da gente che non lo capiva né amava, senza un parente o amico che andasse – com’era d’uso – a pagare il boia affinché strangolasse nascostamente il condannato prima di dargli fuoco.
Era quasi l’unico savio in un mondo di folli. L’Europa precipitava nelle guerre di religione; Bruno, che l’aveva percorsa tutta (piú volte scacciato da questa o quella comunità per il suo esser incapace di tacere sulla ottusità degli accademici), era stato anche protestante ma infine aveva concluso esser migliore il cattolicesimo, pur criticandone l’aver perduto il senso dell’infinito. La “superiorità” di Bruno stava nel suo eroico furore: quel ribollente desiderio di conoscenza di cui il poeta filosofo investe la totalità dell’universo, e che dall’osservato rimbalza sull’osservatore, facendolo simile all’Atteone del mito, trasformato da cacciatore in cervo e sbranato dai suoi stessi cani.
L’abiura di Galilei è giustificata, non essendo egli un filosofo ma uno scienziato, in un’epoca che vedeva la scienza sempre piú distanziarsi dalle speculazioni metafisiche (anche perché a mischiarsi con la teologia si finiva male). Ma Bruno era diverso: le basi su cui poggiava le sue convinzioni nascevano meno dal metodo scientifico che dall’intuito poetico. Per questo fu tanto piú rivoluzionario, rispetto a Galilei e allo stesso Copernico, nelle sue tesi cosmologiche, pur senza aver mai toccato un cannocchiale (né il suo campo speculativo si riduceva all’indagine del mondo fisico). Le sue idee erano la sua vita; anzi erano molto di piú. Per questo non abiurò alle idee, e rinunciò alla vita.
Avete piú paura voi a pronunciare la condanna, che io a udirla, furono tra le sue ultime parole; poi, gli venne stretta e trafitta la lingua nell’apposita morsa d’uno strumento simile a una museruola, per impedirgli di parlare alla folla, copiosa in Roma per il Giubileo; e fu condotto al rogo. Era il 17 febbraio del 1600. La morte di Bruno significò la morte del Rinascimento, della filosofia naturalista, sorretta dall’amore per il mondo e Dio visti come un unicum, filigranata di echi di magia, e che presto sarebbe stata soppiantata dall’asettico razionalismo di Cartesio, artefice della spaccatura tra scienza e spirito dalla quale sarebbero scaturiti i modi dell’odierna società ipertecnologica di massa – teatro di alienazioni sottilissime moltiplicate da mille specchi, da mille schermi.
Tornando a Bruno (e sarebbe davvero salúbre tornare a Bruno, oggi), il tempo ha fatto della sua figura il simbolo della libertà di pensiero, amato in tutto il mondo. Quanto a trasversalità, si è simpatizzato per Bruno tanto da sinistra quanto da destra: se a erigere la statua in Campo de’ Fiori fu nel 1889 il governo Crispi, nel 1929 fu Mussolini in persona a difenderla dalla demolizione pretesa da Pio XI – il quale, per “ripicca”, un anno dopo santificò il famoso Martello degli Eretici.
Inevitabili sono arrivate anche le strumentalizzazioni ideologiche e le banalizzazioni. Lo stesso articolo che state leggendo, probabilmente, è piú banalizzante che analitico. Si era pensato di intitolarlo Che c’entra Capua con Giordano Bruno?, e ci sarebbe in effetti da domandarselo; a guardarsi in giro, non si vede davvero molto eroico furore da queste parti. Cionondimeno, se Capua ritiene d’essere città fra le piú importanti della Campania per storia e per cultura, non dovrebbe “disdegnare” di intitolare una sua via o piazza al piú importante filosofo del Rinascimento, campanus sive capuanus. L’occasione immediata è data dalla costruzione della nuova piazza nel rione Eucalyptus, ed è per questo – per avere qui piazza Giordano Bruno – che, a partire dalla solita simbolica raccolta di firme, ci si sta muovendo. Come per la battaglia contro la TAV, non ce ne viene niente in tasca: tutto ciò che speriamo è che la cosa vi dia da pensare.
Luigi Credendino nei panni di Pulcinella in Gli arcivescovi di Capua Nicholas Schönberg e Roberto Bellarmino nel racconto di Pulcinella, il secondo quadro di Le strade e le storie di Capua. Dialogo didascalico in otto quadri dove i vivi parlano coi morti di Marco Palasciano, in prima rappresentazione a Capua il 10 settembre 2005 per la regia di Roberto Solofria; sullo sfondo la statua del cardinal Bellarmino (foto di Mario Nardiello).
* moto bruniano: gioco di parole tra Bruno e il moto browniano, relativo a particelle libere nell’aria.
1 commento:
[Commento di Anfiosso del 18 febbraio 2010]
L’abiura di Galilei è giustificata, non essendo egli un filosofo ma uno scienziato, in un’epoca che vedeva la scienza sempre piú distanziarsi dalle speculazioni metafisiche (anche perché a mischiarsi con la teologia si finiva male). Ma Bruno era diverso: le basi su cui poggiava le sue convinzioni nascevano meno dal metodo scientifico che dall’intuito poetico.
Di più: quella di Bruno è un'etica, e l'etica deve per forza incarnarsi per sussistere. La scienza invecchia, la speculazione no: sicché oggi Galileo è un'ombra veneranda, mentre Bruno è più vivo che mai. (Lèggere l'operina sulle ligature, magari con l'introduzione di Parinetto, per rendersi conto di quello che è, veramente, la società dell'immagine).
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