Ricorre oggi il quattrocentodecimo anniversario del rogo di Giordano Bruno; ripubblichiamo per l'occasione un articolo di Marco Palasciano
del 2002, scritto – ed edito, sul mensile locale «Block Notes» – in
occasione della campagna dell'Accademia Palasciania pro l'intitolazione a
Giordano Bruno di una piazza della città di Capua; piazza che
naturalmente non gli si è ancora, né mai probabilmente gli sarà, intitolata; e intanto, il Martello degli Eretici (Roberto Bellarmino) ha una piazza, una statua, e una chiesa novissima a lui intitolata, oltre a essere santo patrono dei capuani.
COME METTERE CAPUA
IN MOTO BRUNIANO*
Trentatré
anni prima che Galilei – vecchio e un po’ tremante davanti ai cardinali
dell’Inquisizione – scegliesse l’abiura piuttosto che la morte,
Giordano Bruno scelse la morte piuttosto che l’abiura. Quella volta
davanti all’inquisito furono gli inquisitori a tremare un po’, per come
dovette guardarli mentre dichiarava la sua scelta, lui che, pur alto un
metro e sessanta scarso, in senso morale era un gigante. Se in un primo
tempo aveva deciso di abiurare, poi – quando un cardinale soprannominato
il Martello degli Eretici (di lí a due anni arcivescovo di Capua) gli
presentò, pronta da obliterare, la lista dei punti chiave della sua
filosofia di cui fare ammenda – Bruno ci ripensò. Tanto fortemente amava
la vita, quanto fortemente volle rinunciarle pur di non tradire sé
stesso. Non avrebbe mai piú rivisto la natia
Campania, che qualche anno prima, dalla Francia, aveva ricordato con
struggimento e ricreato a tutto colore in un testo teatrale di
scandalosa allegria, il Candelaio. Il Nolano sarebbe morto
nella cupa Roma di Clemente VIII, circondato da gente che non lo capiva
né amava, senza un parente o amico che andasse – com’era d’uso – a
pagare il boia affinché strangolasse nascostamente il condannato prima
di dargli fuoco.
Era
quasi l’unico savio in un mondo di folli. L’Europa precipitava nelle
guerre di religione; Bruno, che l’aveva percorsa tutta (piú volte
scacciato da questa o quella comunità per il suo esser incapace di
tacere sulla ottusità degli accademici), era stato anche protestante ma
infine aveva concluso esser migliore il cattolicesimo, pur criticandone
l’aver perduto il senso dell’infinito. La “superiorità” di Bruno stava
nel suo eroico furore: quel ribollente desiderio di conoscenza di cui il poeta filosofo
investe la totalità dell’universo, e che dall’osservato rimbalza
sull’osservatore, facendolo simile all’Atteone del mito, trasformato da
cacciatore in cervo e sbranato dai suoi stessi cani.
L’abiura
di Galilei è giustificata, non essendo egli un filosofo ma uno
scienziato, in un’epoca che vedeva la scienza sempre piú distanziarsi
dalle speculazioni metafisiche (anche perché a mischiarsi con la
teologia si finiva male). Ma Bruno era diverso: le basi su cui poggiava
le sue convinzioni nascevano meno dal metodo scientifico che
dall’intuito poetico. Per questo fu tanto piú rivoluzionario, rispetto a
Galilei e allo stesso Copernico, nelle sue tesi cosmologiche, pur senza
aver mai toccato un cannocchiale (né il suo campo speculativo si
riduceva all’indagine del mondo fisico). Le sue idee erano la sua vita;
anzi erano molto di piú. Per questo non abiurò alle idee, e rinunciò
alla vita.
Avete piú paura voi a pronunciare la condanna, che io a udirla,
furono tra le sue ultime parole; poi, gli venne stretta e trafitta la
lingua nell’apposita morsa d’uno strumento simile a una museruola, per
impedirgli di parlare alla folla, copiosa in Roma per il Giubileo; e fu
condotto al rogo. Era il 17 febbraio del 1600. La morte di Bruno
significò la morte del Rinascimento, della filosofia naturalista,
sorretta dall’amore per il mondo e Dio visti come un unicum,
filigranata di echi di magia, e che presto sarebbe stata soppiantata
dall’asettico razionalismo di Cartesio, artefice della spaccatura tra
scienza e spirito dalla quale sarebbero scaturiti i modi dell’odierna
società ipertecnologica di massa – teatro di alienazioni sottilissime
moltiplicate da mille specchi, da mille schermi.
Tornando a Bruno (e sarebbe davvero salúbre tornare a Bruno,
oggi), il tempo ha fatto della sua figura il simbolo della libertà di
pensiero, amato in tutto il mondo. Quanto a trasversalità, si è
simpatizzato per Bruno tanto da sinistra quanto da destra: se a erigere
la statua in Campo de’ Fiori fu nel 1889 il governo Crispi, nel 1929 fu
Mussolini in persona a difenderla dalla demolizione pretesa da Pio XI –
il quale, per “ripicca”, un anno dopo santificò il famoso Martello degli
Eretici.
Inevitabili sono arrivate anche le strumentalizzazioni ideologiche e le
banalizzazioni. Lo stesso articolo che state leggendo, probabilmente, è
piú banalizzante che analitico. Si era pensato di intitolarlo Che c’entra Capua con Giordano Bruno?, e ci sarebbe in effetti da domandarselo; a guardarsi in giro, non si vede davvero molto eroico furore da queste parti.
Cionondimeno, se Capua ritiene d’essere città fra le piú importanti
della Campania per storia e per cultura, non dovrebbe “disdegnare” di
intitolare una sua via o piazza al piú importante filosofo del
Rinascimento, campanus sive capuanus. L’occasione immediata è
data dalla costruzione della nuova piazza nel rione Eucalyptus, ed è per
questo – per avere qui piazza Giordano Bruno – che, a partire dalla
solita simbolica raccolta di firme, ci si sta muovendo. Come per la battaglia contro la TAV, non ce ne viene niente in tasca: tutto ciò che speriamo è che la cosa vi dia da pensare.
Luigi Credendino nei panni di Pulcinella in Gli arcivescovi di Capua Nicholas Schönberg e Roberto Bellarmino nel racconto di Pulcinella, il secondo quadro di Le strade e le storie di Capua. Dialogo didascalico in otto quadri dove i vivi parlano coi morti
di Marco Palasciano, in prima rappresentazione a Capua il 10 settembre
2005 per la regia di Roberto Solofria; sullo sfondo la statua del
cardinal Bellarmino (foto di Mario Nardiello).
* moto bruniano: gioco di parole tra Bruno e il moto browniano, relativo a particelle libere nell’aria.
1 commento:
[Commento di Anfiosso del 18 febbraio 2010]
L’abiura di Galilei è giustificata, non essendo egli un filosofo ma uno scienziato, in un’epoca che vedeva la scienza sempre piú distanziarsi dalle speculazioni metafisiche (anche perché a mischiarsi con la teologia si finiva male). Ma Bruno era diverso: le basi su cui poggiava le sue convinzioni nascevano meno dal metodo scientifico che dall’intuito poetico.
Di più: quella di Bruno è un'etica, e l'etica deve per forza incarnarsi per sussistere. La scienza invecchia, la speculazione no: sicché oggi Galileo è un'ombra veneranda, mentre Bruno è più vivo che mai. (Lèggere l'operina sulle ligature, magari con l'introduzione di Parinetto, per rendersi conto di quello che è, veramente, la società dell'immagine).
Posta un commento