martedì 8 febbraio 2011

L'Accademia si smuove e si commuove

Ci annoia molto scrivere recensioni teatrali, e d’altro canto nessuno ci ha chiesto di scriverne; ci limiteremo perciò a dire com’è andato lo spettacolo in due parole. Stiamo parlando di Come gocce su pietre roventi, da Fassbinder, 1965, regia 2011 di Arnolfo Petri, attori lo stesso e Maurizio Capuano piú nell’ultima parte Loretta Palo e, muta, Autilia Ranieri, in scena in Napoli al Teatro “Il Primo” fino all’altro ieri.

L’ipobulia ci permette assai di rado di smuoverci dalla nostra sede accademica, dove usiamo pigritare nel piú sfacciato ozio neoannibalesco, languendo tra uno schermo di computer streammante o feisbuccante e una tastiera di pianoforte, dove l’accidia sfuma nella malinconia il tempo necessario per un impromptu scarica-tossine-psichiche che par di clavicembalo essendo scassato il pedale di risonanza. Da anni non andiamo a teatro. Poi un invito via rete, e nel suo mezzo le parole magiche: «Me ne frego dei giudizi altrui, ma il vostro sarebbe importante».


Il cuore si scioglie a un tale candore, a tanto disarmata e disarmante fiducia; come! quest’anima adorabile, che già adoravamo, non si è ancora resa conto che siamo dei ciarlatani à la Wizard of Oz, e ci crede sapienti e saggi piú che non siamo! In ogni caso andiamo. Mettiamo insieme il Presidente dell’Accademia che, piú di tutti pre-commosso, ripone tra parentesi la sua odeporofobia; il Segretario dell’Accademia, che fungerà da autista Capua-Napoli; quattro Soci Ornamentali dei piú curricolosi; e troviamo il teatro. Lo spettacolo ha inizio; lo spettacolo si conclude; andiamo ad abbracciare chi ci invitò; il giorno dopo ci scrive che i nostri complimenti «sono stati quelli che piú m’han reso felice e orgoglioso del duro lavoro fatto»; e a legger questo il cuore del Presidente, tanto severo quanto tenero, poco ci manca che trabocchi.

«Bisogna scrivere qualcosa, bisogna esprimere il nostro affetto per questa rappresentazione e chi la rappresentò», abbiamo poi verbalizzato, «sebbene la tesi rappresentata nel testo fassbinderesco rappresenti un che di irriducibile alla nostra posizione filosofica, relativamente al campo dell’eros e dell’affettività. Ma in arte, essenzialmente, non importa ciò che si dice, bensí come lo si dice; si sa; e qui la dizione fu fine, e veicolò ad abundantiam pathos e diletto estetico, senza una sbavatura, e il disbelief è rimasto ben suspended, e i neuroni specchio hanno vibrato come le sette corde simpatiche d’una viola d’amore».

Specchio, a raggi x, della speranza latente dietro la disperazione. Piú Fassbinder schiacciava l’amore, difatti, sotto il peso del proprio disamorismo volpe-uva, e piú per noi stilnovisti del Duemila era una spremitura di mosto, e infine si è stati ebbri; ebberrimo il Maestro Palasciano, particolarmente sensibile agli scenari tipo martirio sansebastianèo, che risvegliano intera la sua píetas.

Un orologio la regia, che tra l’altro si è concessa il lusso di cancellare tutta la parte parlata di Vera e ridurne il personaggio a un perturbante mascherone di inespressività espressivissima, talché per avvisare che Franz è morto deve gettare una scarpa contro il muro. La morte di Franz segna l’acme tragico, e al tempo stesso è occasione della piú tagliata soprarigatura comica: la telefonata di Leopold (Blum) alla madre (Molly?) del povero ragazzo spalanca le porte al surreale conclamato, ciliegina sulla totendanz, quando capiamo che (cosí come Anna elaborerà il lutto in dieci secondi, tornando súbito a letto con Leopold e Vera) madame andrà ugualmente al cinema. E cinematografica risulta a tratti l’atmosfera recitativa, per tutta la mise en scène, da film d’autore d’autunno del Novecento; proprio, incidentalmente, come a noi piú piace.

Lo sforzo piú impegnativo ha certo riguardato il deuteragonista iuniore: la sua parte esponeva a mille trappole e microtrappole l’attore, che ben guidato da un Petri rovente le ha scansate tutte, regalandoci cosí l’incarnazione d’eroe eroto-tanatico teatrale piú limpida e struggente di cui abbiamo memoria, col suo esile corpo eterosessuale prestato all’anima di Franz per denudare l’una attraverso l’altro sull’altare del consumismo sentimentale dell’homo leopoldblumensis, dimensione totalmente altra rispetto al consumarsi d’amore dell’amante sventurato di turno.

Cosí in palco, dove un dominante tappeto bianco evoca il vello dell’agnello sacrificale, finalmente giace la povera vittima, sul cui torace nudo e indifeso si posavano poc’anzi per l’ultima volta, cercando un ultimo battito, le mani usatrici e gettatrici del lutulento Leopold, che in retropalco si posano quindi sulle zinne delle amanti rimaste a cuor battente, però battente come una battona; la poesia è morta!; e nessuno potrà resuscitarla con un bacio, né con un calcio, perlomeno non nella finzione. Nella realtà, invece, l’amore non coincide necessariamente con l’impossibile; onde vi invitiamo, fragili anime pervie al suo alto lume, a non suicidarvi mai.

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