Ci
annoia molto scrivere recensioni teatrali, e d’altro canto nessuno ci
ha chiesto di scriverne; ci limiteremo perciò a dire com’è andato lo
spettacolo in due parole. Stiamo parlando di Come gocce su pietre roventi, da Fassbinder, 1965, regia 2011 di Arnolfo Petri, attori lo stesso e Maurizio Capuano piú nell’ultima parte Loretta Palo e, muta, Autilia Ranieri, in scena in Napoli al Teatro “Il Primo” fino all’altro ieri.
L’ipobulia
ci permette assai di rado di smuoverci dalla nostra sede accademica,
dove usiamo pigritare nel piú sfacciato ozio neoannibalesco, languendo
tra uno schermo di computer streammante o feisbuccante e una tastiera di
pianoforte, dove l’accidia sfuma nella malinconia il tempo necessario
per un impromptu scarica-tossine-psichiche che par di clavicembalo
essendo scassato il pedale di risonanza. Da anni non andiamo a teatro.
Poi un invito via rete, e nel suo mezzo le parole magiche: «Me ne frego
dei giudizi altrui, ma il vostro sarebbe importante».
Il
cuore si scioglie a un tale candore, a tanto disarmata e disarmante
fiducia; come! quest’anima adorabile, che già adoravamo, non si è ancora
resa conto che siamo dei ciarlatani à la Wizard of Oz, e ci crede
sapienti e saggi piú che non siamo! In ogni caso andiamo. Mettiamo
insieme il Presidente dell’Accademia che, piú di tutti pre-commosso,
ripone tra parentesi la sua odeporofobia; il Segretario dell’Accademia,
che fungerà da autista Capua-Napoli; quattro Soci Ornamentali dei piú
curricolosi; e troviamo il teatro. Lo spettacolo ha inizio; lo
spettacolo si conclude; andiamo ad abbracciare chi ci invitò; il giorno
dopo ci scrive che i nostri complimenti «sono stati quelli che piú m’han
reso felice e orgoglioso del duro lavoro fatto»; e a legger questo il
cuore del Presidente, tanto severo quanto tenero, poco ci manca che
trabocchi.
«Bisogna
scrivere qualcosa, bisogna esprimere il nostro affetto per questa
rappresentazione e chi la rappresentò», abbiamo poi verbalizzato,
«sebbene la tesi rappresentata nel testo fassbinderesco rappresenti un
che di irriducibile alla nostra posizione filosofica, relativamente al
campo dell’eros e dell’affettività. Ma in arte, essenzialmente, non
importa ciò che si dice, bensí come lo si dice; si sa; e qui la dizione
fu fine, e veicolò ad abundantiam pathos e diletto estetico, senza una
sbavatura, e il disbelief è rimasto ben suspended, e i neuroni specchio
hanno vibrato come le sette corde simpatiche d’una viola d’amore».
Specchio, a raggi x, della speranza latente dietro la disperazione. Piú
Fassbinder schiacciava l’amore, difatti, sotto il peso del proprio
disamorismo volpe-uva, e piú per noi stilnovisti del Duemila era una
spremitura di mosto, e infine si è stati ebbri; ebberrimo il Maestro Palasciano, particolarmente sensibile agli scenari tipo martirio sansebastianèo, che risvegliano intera la sua píetas.
Un orologio la regia, che tra l’altro si è concessa il lusso di cancellare tutta la parte parlata di Vera e ridurne il personaggio a un perturbante mascherone di inespressività espressivissima, talché per avvisare che Franz è morto deve gettare una scarpa contro il muro. La morte di Franz segna l’acme tragico, e al tempo stesso è occasione della piú tagliata soprarigatura comica: la telefonata di Leopold (Blum) alla madre (Molly?) del povero ragazzo spalanca le porte al surreale conclamato, ciliegina sulla totendanz, quando capiamo che (cosí come Anna elaborerà il lutto in dieci secondi, tornando súbito a letto con Leopold e Vera) madame andrà ugualmente al cinema. E cinematografica risulta a tratti l’atmosfera recitativa, per tutta la mise en scène, da film d’autore d’autunno del Novecento; proprio, incidentalmente, come a noi piú piace.
Lo
sforzo piú impegnativo ha certo riguardato il deuteragonista iuniore:
la sua parte esponeva a mille trappole e microtrappole l’attore, che ben
guidato da un Petri rovente le ha scansate tutte, regalandoci cosí
l’incarnazione d’eroe eroto-tanatico teatrale piú limpida e struggente
di cui abbiamo memoria, col suo esile corpo eterosessuale prestato
all’anima di Franz per denudare l’una attraverso l’altro sull’altare del
consumismo sentimentale dell’homo leopoldblumensis, dimensione
totalmente altra rispetto al consumarsi d’amore dell’amante sventurato
di turno.
Cosí
in palco, dove un dominante tappeto bianco evoca il vello dell’agnello
sacrificale, finalmente giace la povera vittima, sul cui torace nudo e
indifeso si posavano poc’anzi per l’ultima volta, cercando un ultimo
battito, le mani usatrici e gettatrici del lutulento Leopold, che in
retropalco si posano quindi sulle zinne delle amanti rimaste a cuor
battente, però battente come una battona; la poesia è morta!; e nessuno
potrà resuscitarla con un bacio, né con un calcio, perlomeno non nella
finzione. Nella realtà, invece, l’amore non coincide necessariamente con
l’impossibile; onde vi invitiamo, fragili anime pervie al suo alto
lume, a non suicidarvi mai.
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