3 luglio 2010

L'Officina dei Canti: il resoconto

Meravigliosamente in Napoli si è svolto l’evento celebrativo del 212° genetliaco di Giacomo Leopardi, a cura della già collaudata l’anno scorso triade Associazione Leopardi + Accademia Palasciania + Libreria Treves (rispettivamente rette da Agostino Ingenito, Marco Palasciano, Rino De Martino), con tanto di patrocinio del Comune di Napoli, fornitore di sedie blu e pedana moquettata d’azzurro.

A insediarsi e impedanarsi, la sera del 29 giugno 2010, in piazza del Plebiscito, è convenuto uno scelto insieme di giocatori, giudici, lettori, cultori e piú o men cólti spettatori. Al pubblico s’è chiesto, in primis, d’ideare – affatto liberamente – i temi fra i quali poi scegliere a caso quelli sui quali far sviluppare improptus in endecasillabi e settenari ai verseggiatori coinvolti nel giuoco dell’Officina dei Canti: Edgardo Bellini, Antonio Maggio, Marco Palasciano, Daniele Ventre.

Altri che questi quattro, da tutta la Campania, non hanno potuto o voluto presentarsi all’appello di Calliope. Riportiamo, a parziale illuminazione del mistero d’una tale tetrailuría ovvero quattrogattaggio, due brani da altrettante lettere gentilissime pervenute al nostro presidente-monstre – prima della festa – da parte del partito dei leopardisti di ferro:


Personalmente non sono d’accordo con la tenzone poetica. In questo senso mi sento poco medievale, credo che ci sia bisogno d’intimità per comporre e tempo per far lievitare la parola poetica. Penso che anche Giacomo sia dalla mia parte.

Ribadisco la mia simpatia per te e la mia stima per ciò che fai – pochissimi sono brillanti e competenti come te –, ma anche il mio disappunto per la tenzone poetica scelta per festeggiare l’autore dei Canti, l’amatissimo Giacomo Leopardi. Sarebbe stata piú indicata per ricordare un Marino e pure un Palazzeschi.

L’anno scorso vi fu scandalo immenso, d’altro canto, dinanzi all’operazione folle compiuta dal Maestro Palasciano sui Canti leopardiani: ritagliò tutti i piú “carini” e ne cucì insieme i ritagli, frankensteinianamente!, rimontandoli a formare – per cosí dire – un unico ipercanto (dove, a esempio, si saltava dal «rimembrar delle passate cose»* a «Silvia, rimembri ancora», e dal «biancheggiar della recente luna»** direttamente a «Che fai tu, luna, in ciel?» per attaccarsi quindi al posar della luna «queta sovra i tetti e in mezzo agli orti»***), ipercanto cui diede lettura – per giunta – in istile espressivo non sempre a Leopardi congenialissimo, per esempio interpretando A Silvia come un sottilmente crudele persiflaggio alla poveretta e ai suoi ingenui, fragili e infine franti sogni, quasi quasi un sadico A Justine... E però che epifanici rimbombi, nella piazza, fin in faccia al Vesuvio, a abbrividirci, volando certe tranche di La ginestra! Che immedesimazione! Quanto ci piacque, anche, la resa di quell’inveire di Saffo contro il suo amore ingrato****!...

Ma torniamo allo show 2010; il quale, va detto, ha decisamente e recisamente divertito e appagato (altro che epatoclasti poetry slam) tutt’i presenti: scriptores, e lectores, e auditores. Questi i temi pescatisi dall’urna*****, nel corso della gara, un per ciascuna delle cinque manche:


1. Gomma da masticare
2. Un foglio bianco
3. Essere antileopardiano
4. La dichiarazione dei redditi
5. Eros

Questi invece i diciotto temi rimasti dormienti nell’urna: Albero, Amore disperato, Anima, Aquila, Cappello, Carattere dei napoletani, Fiore, Il Sud, Isola, Le maschere dei poeti, Malattia, Numero 5, Sogno, Stelle, Suola, Un sorriso, Vesuvio, Volo.

Di volta in volta, mentre i giocatori componevano, si sono letti al leggío vari Canti di Leopardi, funzionanti in luogo d’una clessidra per uova à la coque. Lettori: Claudio Finelli (A Silvia e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima), Pina Lamberti Sorrentino (La sera del dí di festa + A se stesso), Lucia Ióvino (Il sogno), Laura Patrizia Cagnazzo (Alla sua donna).

E cosí, con ogni volta circa tre minuti a disposizione, senza praticamente il tempo di tornare indietro a limare né meglio interrelare i versi, i versaiuoli in gara hanno deposto, come insette in travaglio moribonde, temerarie abortuova come questa:


Gomma da masticare

O gomma che t’attacchi alla gengiva,
causando pena ohimè nonché fastidio,
disturbando il mio canto misolidio
e rendendomi priva
l’anima d’ogni lepido sollazzo,
gomma, perché natura è sí meccanica,
e non segue il mio velle,
e ogni ragione umana, par, repelle?

E che dire di quando non la bocca
fastidisce, ma il manto stradal tocca
la tua sostanza refrattaria al senno,
e l’intride, e fa macchia
che nei secoli mai non leverassi?
e tu sotto i miei passi
alle suole t’attacchi. O gomma odiosa!
t’odio, pur quando il tuo colore è rosa.

O questa (del medesimo autore, in attesa che gli altri ci spediscano le loro, delle quali pubblicheremo un florilegio in un prossimo post, in ulteriore attesa che si stàmpino in libríno tutt’i testi):


Eros

Eros, tu forza prima
dell’universo! pure sul ritratto
di quella bella donna là scolpito
nel monumento sepolcrale, slurp,
leggo segnali, tutta una semantica,
che stimolano il mio velle vizioso,
sí che non posso far star fermo il coso,
e tuttavia poiché
il luogo è questo, occorre che s’acquieti;
Eros, perché tra lapidi mi segui?

Mi sa che devo andare
da un terapeuta, che argini un tal mare
di voluttà che l’anima mi guasta;
ahi, perché aver non posso vita casta?
O servitú! però, l’è deliziosa;
ve n’è di peggio, certo…
onde lagnare troppo non mi posso
di quest’eterno mattutino osso******,
morning boner, com’usa dire l’anglio.
E a strangolarmi è dolce questo ganglio.

O questa, che è quella che ha ricevuti piú applausi:


Essere antileopardiano

Leopardi mio, che noia,
in te non vedo un’ombra né di gioia
né d’ironia! Lo so, son miope, è vero;
in te vedo soltanto il cimitero,
non il giardin, non l’oasi di pensiero;
ma lascia ch’io mi crògioli
nella facile cosa,
lascia che la mia mente resti ’nfosa
di quella voluttà che alberga in chi
mai della vita il nòcciolo capí,
e della scorza s’accontenta e gode.

Leopardi, t’odio; il genio tuo mi rode;
ti sminuirò finché mi resti fiato;
e non vi sembri ingrato
il mio fare; son solo
uno che sta a sguazzar nel proprio brolo,
nel proprio cretto inetto e cretinetto,
e gretto, e cosí via.


È risultato vincitore del giuoco dell’Officina dei Canti, infine, l’autore dei tre soprariportati esempi, il Maestro Palasciano, con 380 punti, contro i 315 del Maestro Bellini, i 240 del professor Ventre e i 127 del dottor Maggio. Ma va detto che il sistema d’attribuzione dei punteggi, basato in grossa parte sulla quantità dei versi, è risultato premiare soprattutto la velocità compositiva, piuttosto che la qualità letteraria (almen secondo il gusto dei giurati); talché il Palasciano, vero Pennalesta, ha additato il vincitore morale nel Bellini, quest’ultimo avendo ricevuto piú «V» dalla giuria (vedi regolamento, a piè del post precedente). E Ingenito ha premiato tutti e quattro con la nomina a giurati del Premio Leopardi, che partirà a settembre, con tanto di gettone di presenza.



Marco Palasciano introduce l'Officina dei Canti. In prima fila sono le tre giurate,
con al centro Pina Lamberti Sorrentino, in abito leopardato in onor di Leopardi.

A chiudere in bellezza, Palasciano ha recitato Il sabato del villaggio, cosí come in apertura di serata aveva dato lectura del frammento «Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno» e dei canti Alla luna, L’infinito e – per passare in breve, indi, alla gara – Scherzo, stando il testo di quest’ultimo a origine del nome Officina dei Canti, e stando il leggerlo a sottolineatura del fatto che, mancando il tempo, sarebbe pur mancata ahimè la lima.

E l’anno prossimo? Claudio Finelli avanza al microfono una proposta shock: trattare dell’omosessualità di Leopardi (che in Napoli faceva quel che Pasolini a Roma) e del complesso rapporto tra il poeta, follemente innamorato, e l’eterissimo e fin troppo razionale Antonio Ranieri. Quel ch’è certo, è che s’è ormai presa una bella avviata; e che nessuno potrà osare dire che sian cosa noiosa (non a Napoli, perlomeno) le celebrazioni leopardiane.



* Alla luna, 15.

** Il sabato del villaggio, 19.

*** La sera del dí di festa, 2.

**** Ultimo canto di Saffo, 58-62: «E tu cui lungo / amore indarno, e lunga fede, e vano / d’implacato desio furor mi strinse, / vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal».

***** Stessa urna adoperata, a novembre scorso, nel giuoco del Laboratorio musicale; vedi qui.

****** In inglese, per l’esattezza, osso dicesi bone; boner vale, gergalmente, pene eretto, errore grossolano (cfr. il nostro cazzata) ecc. Qui una simpatica video-lezione sul come prendersi cura del proprio morning boner.

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