Marco Palasciano
Capua, l’hip hop e il quinto album di Branka
In ritardo di cinque mesi (ma il 5 è il “numero fortunato” dell’Accademia Palasciania) scrivo di Nautilus, concept album di Branka e Yeti uscito a giugno 2024, esempio fra i piú significativi e luminosi del suo genere: il rap del casertano, distantissimo per natura dalla sontuosa paccottiglia commerciale che, oscurando il resto, fa credere al pubblico pseudocólto che l’hip hop sia bassa cultura.
Branka (Umberto Branca) è di Capua, che è anche la mia città, e sarebbe bello se tutti i capuani si accorgessero della statura non trascurabile di questo artista e, piú ampiamente, riconoscessero ciò che la crew Homicidial Familia – in uno col microcosmo che le si aggrega intorno – ha rappresentato e rappresenta per Capua e dintorni in campo artistico e socioculturale.
C’è un luogo, in via Roma, che di quel bell’aggregato costituisce il cuore: il Dirty Sound Studio, fondato da DirtyGun (Francesco Natale), già fondatore della suddetta crew insieme con Branka. Un cuore che ad aprile 2024 ha cessato per un momento di battere, insieme con quello di DirtyGun, uscito dalla scena del mondo per un assurdo incidente. Lo studio è però tornato presto a risuonare di musica e di vita, grazie alla sollecitudine di quanti continuano a portarne avanti l’esperienza per onorare il contributo straordinario – in termini e musicali e umani – elargito al mondo, senza risparmio, dal nostro amato Ciccio, amato e noto ben oltre i confini di questa provincia o dell’Italia.
Nel Dirty Sound Studio – quando ancora vi era DirtyGun, un anno fa – Branka si è chiuso come nell’àdyton di un tempio a lavorare a Nautilus, suo quinto e migliore album, isolandosi da ogni disturbo esterno, anche come antidoto alla personale sofferenza per la madre che era allora in via di spegnersi. Da quella lotta tra bellezza e dolore, infine, sono emersi nove brani; la cui tessitura strumentale si deve a Yeti (Angelo Letizia), giovanissimo producer marcianisano. Cinque tracce vedono Branka solista; nelle altre quattro si alternano alla sua voce quelle di altri quattro rapper – BigPa, Pinch LNF, Peppe Erre, DirtyGun qui alla sua ultima performance edita – e della cantante Valeria.
I testi sono misti d’italiano, napoletano, inglese. Magistrale la resa vocale, in un arcobaleno di registri, dall’elegía alla pirotecnía.
Di séguito le analisi tematiche dei singoli brani.
1. Intro
Si entra nell’allegoria marina. Il Dirty Sound Studio è un confessionale-fondale oceanico. Il Nautilus è sottomarino piratesco e nobile a un tempo, replica di quello del capitano Nemo dei romanzi di Verne. Le rare riemersioni nel mondo di “sopra” sono per lo piú delusioni, conferme al pessimismo del cantore circa il grado di miserabilità del mondo attuale («l’umanità ha perso»), il distanziamento dai cui stimoli negativi – idealmente portato fino alla deprivazione sensoriale («Se scendo non sento») – pare assumere per ciò stesso i tratti della nigredo («È tutto scuro qui nell’abisso»), la fase iniziale del magistero alchemico, dove si deve marcire per poter rinascere, purificata l’anima.
2. Anima
Canto di solitudine la cui figura chiave è un ex marinaio («Mo che ’stu mare m’ ’o tengo adento / me chiagne ’o core e ’nt’ ’i llacreme navigo»; cfr. nel brano precedente «Messo in disparte come un relitto») chiuso in una sorta di Muda di Ugolino («D’acoppa ’a torre sto ’ncatenato») che è in qualche modo anche turris ebúrnea in cui, come già in mare, isolarsi, stavolta sopra e non sotto il mondo ordinario. Il tema di poc’anzi della disillusione rispetto a quel mondo si restringe, archiviato l’epos da battaglie navali della Intro, all’umana grettezza e ingratitudine («Vulevo caccòsa ’e chello ca aggio dato»); da qui la rinuncia alle relazioni di vario tipo («ched è ’st’ammore?»; «si’ sulo spam»). Né varranno, a conforto del cantore, altre arti («Nun saccio leggere, scrivere») che la musica («ha dato voce alla mia anima»; «se non fosse per la musica…»).
3. Sette mari (con DirtyGun e Peppe Erre)
E sotto l’egida della musica («non esistesse il rap…») si alternano qui varie interpretazioni del tema del viaggio per mare e sotto il mare, con contrasto di allegorie, a seconda della diversa sensibilità dei cantori in gioco. Ecco da un lato il dramma dei migranti, ecco dall’altro battaglie piú o meno vane («Carico i cannoni, ne ho tanto di zolfo»), ecco – a simboleggiare il futuro oscuro – una balena melvilliana da cacciare. Enumerazioni di elementi, rivisitati in modo personale: i sette mari («Il primo è Sofferenza»; «Il quarto lo navighi da bendato»; «Il quinto non riesci, mai provato»); i quattro elementi («elementi contro», in ispecifico: «l’aria ca mmanca, / terra ca nun veco, / fuoco ca non scarfa, / l’acqua non disseta»).
4. Quaggiú
Assurge a polisemico emblema dionisiaco, in questo tellurico ballabile, il frutto dell’anguria, fatto a fette in sincrono con la diffrazione dei significati, non ultime le allusioni erotiche («taglia ’sta fella» può riferirsi sia al taglio d’una porzione di bene di consumo sia al coito). Ma soprattutto si gioca con la diffusa immagine stereotipata, stereofattona, dei giovani di «quaggiú», indugiando su una topografia e sociologia dei contesti di spaccio che attinge alla cronaca o alla diceria («le retate che ho visto allo Stella», nome d’una catena di supermercati; i live napoletani del dj francese François K; i ragazzi a rubare le bottiglie «da dietro il bancone» di un bar; «Io vengo col Sí dal Bakú»). Lo spirito combattivo della gioventú («La testa era pronta alla guerra») lo si ritrova poi nell’età adulta, descritto con metafore calcistiche («Lanciavo alla Pirlo, / tutto risolto alla prima ripresa»; in tono l’effervescente consonanza «addreto»/«Zubizarreta»), sebbene in generale la vita del presente sia caratterizzata piú che altro da pantofole e tastiere («Piú non frequento locali», recita un ex scugnizzo). Non manca infine – glissando dalla farsa alla tragedia – una sferzata all’Italia e alle sue istituzioni, sia in generale sia accennando in particolare a un incidente stradale la cui vittima non ha avuto giustizia, tema poi approfondito in Incubo.
5. Scarpone (con Pinch LNF)
Si resta intanto sul tema della gioventú, qui messo in prospettiva quasi shakespeariana (cfr. Re Lear: «Non avresti dovuto diventare vecchio prima di diventare saggio»): se ciascun giovane ha da essere poi adulto, nessun adulto pare tuttavia dimostrarsi esperto della vita («Ccà ogni scarpa è scarpone e nisciuno è scarparo»), dove regna piuttosto l’approssimazione, né si ricorre tanto al dialogo quanto all’imposizione delle proprie ragioni con la forza («La lama fredda ’e ghiaccio ’ncopp’ ’a gola», «’Na bomba fora ’a casa»). Nell’attesa dell’apocalisse annunciata («Babylon, it haffi fall»), la sopravvivenza è garantita dalla mera capacità di sopportazione («Me vóttano ’n terra, non so’ ’nu straccio / però po’ passo e pulezzo ’tte cose»). Resta, di contro, l’istinto di cantare, imperioso fin dall’infanzia; ed emerge, oltre il desiderio di pura evasione, un desiderio di elevazione intellettuale («’a capa ncopp’ ’e libbri), complementare a quello – pur tardivo – di farsi una famiglia.
6. Smoke ’n’ write (con Valeria)
Di nuovo sul desiderio d’evasione, piú che altrove stricto sensu («Punto ad una villa spaziale sopra Plutone»). Nonché sul come sbagliando si dovrebbe, in teoria, imparare («Cadimmo…»). Troppa intanto la spesa per i vizi («’A fosse astipata / tenesse i milioni / comme a Ppaulo Dybala / e ll’aizasse cu’ ’a pala»). Ogni giorno il cantore «crisciuto p’ ’a strada» fuma e scrive, scrive i suoi canti e fuma via gli incubi.
7. Incubo
Riemergono i temi dell’umana fragilità, del tradimento («Si dice amico e mi ruba in casa»), dell’incidente («’O fuoristrada è venuto ’nguollo»), fra nausea e orrore («Io che pensavo fosse un incubo / invece vedo mostri / anche quando son sveglio»).
8. Alaska (con BigPa)
Una fuga dai mostri, anche domestici. Trionfano i paesaggi glaciali – bianchi di albedo alchemica – come proiezione del cuore («Core ’e ghiaccio, ’na muntagna, pare l’Alaska») dell’uomo che si ritrae in solitudine per l’esigenza di autorispettarsi, imparando a dire no ecc. («primma me stesso e po’ chi sa»), in estremo – prospetta il co-cantore – rigettando l’idea stessa di famiglia («l’inferno forse era meglio / ’e chella vita ’m paraviso»).
9. Mala crianza
È la resa dei conti con tutto, quantomeno con il nostro sprofondante Paese: uno scacchiere tossico in cui è difficile vivere («Quanta fatica, mammà, / s’arriva a ’a pensione ammalate») e da cui è facile che si debba fuggire. In ogni caso, nonostante il cumulo delle avversità («Ma quante cadute, / non gira cchiú ’a rota»), si deve tirare innanzi, infine, a onta di chi – col suo indietreggiare inchinandosi – contribuisce a portare indietro il mondo: «pupazzi», «avvoltoi» lesti a saltare sul carrozzone di turno (mentre altri umilmente «votta ’a carretta»), gente dappoco, ílica, lutulenta e contenta, che «’nt’ a stu schifo […] sguazza» e preferisce lasciarsi turlupinare da una qual sia immagine speciosa – benessere che maschera il malessere – anziché in alto volgersi e ascoltare l’iperurania voce delle Muse, trïonfo della musica e dell’anima.
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