Ora, Muse, percotete* i petti per il lutto di [Di] Cesare, piangete** [il fatto] che ormai di ferale morte Pio è perito. Ormai confesserò, amici, che avevo sentito Meo come un poeta [Ormai confesserò amici, che quel poeta l’avevo sentito mio***], ormai confesso di essermi pentito del parlare maligno. Dee che sempre battete coi piedi l’Olimpo, giovi a Pio l’aver cantato carmi degni di Febo****: accoglietelo cinto del vostro lauro [del lauro a voi sacro], questo premio rendetegli*****, dee, per la sua venerazione [verso di voi]******. |
* «plangite»: plango in latino non vale piango, ma percuoto: atto di percuotere i petti e i pugni, tipico del lutto antico. Si ripropone oggi negli applausi ai funerali meridionali: atto che non è cafonaggine preficaria dei terroni o spettacolarizzazione del lutto, come scrisse a esempio la settentrionale umorista minore Brunella Gasperini in una sua tristanzuola rubrichetta giornalistica circa quarant'anni fa, ma è una sopravvivenza del planctus antico. «Pectora... plangite» è la solita allitterazione.
** «flete» regge una oggettiva, «fero leto iam periisse Pium»: la sintassi è stata volutamente forzata in una tachilogia estranea alla lingua latina classica. L'effetto cercato è quello di un'allitterazione e disseminazione fonica combinate che cercano di suggerire una paretimologia: flete fero leto.
*** Facile gioco di parole fra Meum (Pius Meus Cæsareus) Meo, e meum (meus mea meum) mio. «Fateor», che compare due volte in poliptoto, e vuol dire confesso, l'oggettiva la regge normalmente: es. «si quis se amici causa fecisse fateatur», Cicerone, De amicitia, 40.
**** «digna cecinisse...»: la soggettiva qui è regolare essendo dipendente dalla terza persona, usata impersonalmente, di iuvo iuvas iuvi [iutum] iuvaturus iuvare: es. «iuvat Ismara Baccho/ conserere», Virgilio, Georgica II, 37. Il verso che precede «Divæ quæ semper...» è una scopiazzatura da Ennio, dagli Annales, frammento I Vahlen: «Musæ, quæ pedibus magnum pulsatis Olympum». L'espressione «digna Phœbo» è presa da Virgilio, Eneide, VI, 662. Riecheggia altresì un vecchio articolo di uno scrittore latino moderno, Luigi Guercio (Vergilius, pius vates et phœbo digna locutus, «Latinitas», 6, 1958). Ovviamente, dato che Pio Meo di Cesare è stato sanguinosamente sfottuto nella rubrica La Superbia punita, ovvero: O buon Apollo, salvaci dalla poesia mediocre!, qui «Phœbo (Apolline) digna» suona in realtà fortemente ironico: versi «degni di Febo», cioè «degni di essere sfottuti nella rubrica in cui si invoca Febo perché ci salvi dalla poesia mediocre».
***** «reddite eum hoc...»: anche questo doppio accusativo è forzatissimo: vuole lasciare intendere quasi: «Muse, rendetecelo». La forma grammaticalmente limpida è «reddite ei [dat. terminis], Musæ, hoc».
****** Scopiazzatura da Catullo (carme 76, ultimo verso): «o di, reddite mi hoc pro pietate mea».
L'epigrammaton è una autoironizzazione latina del mio stile italiano in versi: sintassi forzata, citazioni arcaiche, ambiguità giocate sulle omofonie, figure di suono.
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